Mako mushkelah

Le ultime ore ad Hammam al-Alil sono state le più difficili.
Non ricordo nessuno dei nomi dei pazienti che ho curato, mi capita anche in Italia, però mi ricordo gli sguardi di ciascuno di loro. Due donne, tre bambini e un uomo.
Mi piace chiamarla “la piccola strage della farina”, a memoria della strage del pane di Sarajevo, perché le guerre fanno tutte schifo allo stesso modo.
Dicono che si fosse sparsa la voce che distribuissero della farina. In molti sono accorsi per averne un po’ per la propria famiglia. Sono stati presi in pieno da una granata.
La prima ragazzina ha 8 anni. Capelli lunghi, neri come gli occhi. Una scheggia le ha trapassato l’addome e le ha bucato l’intestino. Piccole lacerazioni che il chirurgo ha riparato senza difficoltà. Starà bene.
Una madre, 4 figli, è stata più sfortunata. Sguardo terrorizzato di chi sta male ma ce la deve fare. Anche a lei una scheggia ha bucato l’intestino, ma ha fatto molti più danni a livello del pavimento pelvico, causandole una emorragia gravissima. L’intervento non è potuto essere risolutivo. Durante la notte le sue condizioni sono peggiorate ed è entrata in uno stato di sepsi. Abbiamo deciso di riportarla in sala operatoria al mattino, consapevoli che sarebbe stata dura, ma ci abbiamo provato lo stesso: lo dovevamo ai suoi quattro bimbi. Abbiamo finito l’intervento, ma ormai avevo capito che non sarei riuscito a svegliarla dall’anestesia. Gli ospedali da campo obbligano a fare delle scelte, sai già a priori che alcune condizioni non le potrai curare, ma poi queste condizioni ti si presentano lo stesso. Tu sai che in altri contesti potresti fare di più per restituire una mamma ai suoi bambini, qui no, e brucia, brucia tanto. Ho aspettato in sala operatoria, insieme al mio infermiere di anestesia e al mio amico chirurgo iracheno, che il suo cuore smettesse di battere.
Alla seconda bimba, 4 anni, capelli ribelli, una scheggia ha distrutto il femore. È stata medicata in un punto di primo soccorso vicino alla linea del fronte (li chiamiamo TSP, Trauma Stabilization Point) ed è stata mandata da noi. Quando è arrivata aveva tanto male. Ci siamo resi conto che la frattura da sola non giustificava un dolore così e aprendo la medicazione abbiamo capito che oltre al femore era stata distrutta anche l’arteria femorale, il vaso che porta il sangue a tutta la gamba. L’arto era freddo per l’ischemia, probabilmente già da diverse ore. L’abbiamo portata subito in sala operatoria. Quattro ore di intervento per ricostruire l’arteria danneggiata e permettere al sangue di arrivare fino al piede. L’ho svegliata che fuori albeggiava. Con la luce del giorno abbiamo potuto trasferirla in un centro di chirurgia vascolare dove capiranno se il nostro intervento eroico è stato in grado salvarle almeno un pezzo di gamba.
La seconda donna è arrivata in condizioni abbastanza stabili. Era ancora sufficientemente energica da poter urlare contro la nostra infermiera svizzera che voleva rimuoverle il reggiseno. Le abrasioni sull’addome non potevano però lasciarci tranquilli: se l’è cavata con l’asportazione della milza, spaccata in due. È l’unica dei sei personaggi di questo racconto di cui posso ricordare il sorriso dopo l’intervento.
Un bimbo, 3 anni, è stato investito dalla forza dell’esplosione. Me lo hanno portato in sala che era sveglio, la pelle del braccio e della gamba penzolante come stracci sporchi di terra. Era tranquillo. Continuava solo a ripetere la stessa frase: “Ho sete”.
Abbiamo pulito chirurgicamente tutte le ferite e lo abbiamo poi trasferito in un centro per ustionati. Se la caverà, anche se avrà bisogno di diversi interventi per riscoprire la cute.
Alla fine c’è un uomo. Lui non era alla strage della farina. Era in carcere, in attesa di un processo. È uno dei tanti sospettati di essere appartenente o complice di Daesh. È stato torturato con la corrente elettrica fino a distruggergli i reni. Negli ultimi giorni abbiamo iniziato ad accogliere alcuni prigionieri del centro di detenzione di Hammam al-Alil. Qualche centinaio di persone stipate in una stanza senza finestre, dormono a turni perché non c’è spazio per coricarsi tutti insieme. È un dilemma enorme: curare un prigioniero, che vive in condizioni disumane, sapendo che rimetterlo in salute significa riconsegnarlo ai suoi aguzzini o rinunciare a priori sapendo che lascerai morire una persona?
Ci sono i pensieri e ci sono le persone. Questo ragazzo ha la metà dei miei anni. Non so di che cosa sia sospettato esattamente. Abbiamo attraversato anche noi, nel nostro dopoguerra, il tempo del sospetto e della giustizia facile. Forse non ha alcuna colpa, magari invece ha picchiato, stuprato e ucciso una donna indifesa. Io ho visto davanti a me solo un ragazzo rattrappito, incapace di bere da solo, che faticava a parlare. Abbiamo deciso di provare a curarlo, ma presto ci siamo resi conto che avrebbe avuto bisogno di dialisi. Solo l’ospedale di Mosul avrebbe potuto trattarlo. Abbiamo provato per due volte a trasferirlo, senza successo. Magari avevano tanti altri casi da trattare. Magari non hanno voluto prendersi in carico un prigioniero. Chi può capire che cosa significhi per un medico o per un infermiere di Mosul decidere di curare uno che ha contribuito a trasformare la città in un inferno? Io non lo immagino. So solo che ho chiesto al mio di infermiere, quello che era in turno con me domenica in Terapia Intensiva, se se la sentisse di alleviare le sofferenza di un uomo che stava morendo per mancanza di aria. Lui mi ha riposto di sì. Così abbiamo fatto. Medicina palliativa, questa la si può fare ovunque, basta un po’ di pietà. Ho aspettato che smettesse di respirare prima di salire sulla macchina, con il ricordo dei suoi occhi vuoti, per fare ritorno a Erbil.

Passano gli anni e i pensieri si fanno più complessi, riesce sempre più difficile condensarli in poche righe. Dico solo che per un attimo ho pensato che sarebbe stata la mia ultima missione, tanto ho faticato all’inizio ad accettare alcuni situazioni abitative. Poi mi sono rimesso in gioco, ho grattato il fondo del mio barattolo di flessibilità, ho fatto qualche intervento a gamba tesa, ho sorriso molto. Le cose che so fare. Sono riuscito a migliorare qualcosa anche per i miei colleghi.
Volo sopra la Turchia, tra poco sarò a Istanbul e domattina sul mio lago.
No, non ce la faccio, non sarà l’ultima.
“Mako mushkelah”, nessun problema. È stato il tormentone che ci ha accompagnato in queste settimane, una sorta di “Hakuna Matata” arabo. Vi lascio con questa frase. Perché alla fine la vita è un grande gioco, vince chi non si prende troppo sul serio.
Andiamo in garage. Grazie a chi è arrivato con me fino alla fine, ma anche a chi ha fatto solo una fermata. Mako mushkelah.

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Commenti

  • Luca Blesi  Il 6 giugno 2017 alle 19:32

    Sono commosso, Luigi..
    Se ho deciso di far parte di MSF è anche per esempi come il tuo. Grazie!
    Ti stimo
    Luca

  • Elisabetta  Il 6 giugno 2017 alle 20:23

    Grazie Luigi per questo tuo viaggio molto intenso e condiviso qui.
    Ogni tua fermata è stata una scoperta e uno squarcio per “vedere” tramite le tue fotografie raccontate: un regalo prezioso!

    Ciao Luigi,
    betty

  • Max  Il 6 giugno 2017 alle 20:30

    Capisco il tuo stato d’animo. Ultimamente un po’ di cure palliative mi hanno ricordato che lo scopo non è vincere, ma partecipare, fare la nostra parte. Non guarire ma curare. E sono contento di non dover rinunciare a casa per poterlo fare. Lo sai che ti aspettiamo presto (fammi sapere!)

  • Supersarina  Il 6 giugno 2017 alle 23:47

    Buon rientro… questo tuo ultimo post andrebbe fatto leggere nelle scuole.. altro che libri di storia…..
    mi sento fortunata di condividere i tuoi scritti e la tua vita….
    … sei forte…

  • Supersarina  Il 6 giugno 2017 alle 23:47

    Buon rientro… questo tuo ultimo post andrebbe fatto leggere nelle scuole.. altro che libri di storia…..
    mi sento fortunata di condividere i tuoi scritti e la tua vita….
    … sei forte…

  • Mirko  Il 7 giugno 2017 alle 08:32

    Grande Gigio.
    Grazie di tutto.
    A presto.
    Mirko.

  • Gabriella D'Agostini  Il 7 giugno 2017 alle 14:46

    Grazie..
    Per lo sguardo limpido e chiaro dei racconti..
    Per aver condiviso emozioni e pensieri in cui mi sono ritrovata molto in questo mese che è coinciso con il mio primo mese di prima missione..
    In attesa di leggerne altre pagine..
    con molta stima,
    Gabriella

  • Rose  Il 11 giugno 2017 alle 11:42

    Sono un po’ in ritardo. Ti ho seguito, ti ho pensato. Ho immaginato la fatica, la paura e la forza di arrivare in fondo. Forse noi siamo fortunati perché possiamo scegliere”quale guerraaffrontare” . Spero di vederti presto. Grazie ancora. Rose

  • Stefy  Il 15 giugno 2017 alle 22:15

    Io non so come tu trova la forza ogni volta…affronti cose che nemmeno possiamo immaginare…come te tanti altri per fortuna…persone speciali che nel loro piccolo portano tantissimo e molto di più in quei luoghi dove svegliarsi al mattino vivi è già un miracolo…ti ringrazio per quello che fai per tutte quelle persone…per come ce lo sai raccontare…perché attraverso i tuoi occhi anche noi che siamo da questa parte un pochino riusciamo a comprendere quello che accade laggiù…grazie per questo viaggio

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